Mi sarebbe bastata una spiegazione, probabilmente. Anche una sola. Piccola piccola.
Non so cosa ne avrei fatto, a dire il vero. Anche se mi fosse stata concessa, intendo. Me la sarei messa in tasca? L’avrei usata per disegnare una lacrimuccia nera, così, gotica ed un po’ kitch, che mi colava dall’occhio sinistro, rivendicando il mio diritto ad essere triste- solo un po’, esser triste; solo un po’-?
Io me lo chiedo.
E’ stato un brutto anno, questo; ecco tutto. Un anno in cui ho pianto così tanto che, alle volte, penso seriamente che il baccano folle del mio petto mi abbia prosciugata dal di dentro mettendo fine ab aeterno alla mia riserva di lacrime. Adesso non piango più, tanto è vero. Sto cercando di crescere. Penso a tutto quello che ho passato, a quanta sofferenza ho visto e con mano toccato e mi sento, improvvisamente, pesante.
Che diritto avrei di essere triste per una cosa del genere, in fin dei conti? “C’è chi sta peggio”, ecco tutto. Ed è questo quel che la mia testa va ripetendomi: non completamente a torto, per la verità. Ma quanta forza ci vuole, per soffocare questo nodo in gola!
Ho maledettamente caldo. E' la seconda estate della mia giovinezza buttata perfettamente nel cesso. Cerco di prendere le distanze dallo Xanax: ma, di buttarlo definitivamente via, non c’è proprio verso. E’ il mio stesso corpo che me lo chiede, niente da fare. Almeno una volta al giorno.
Mi sforzo disperatamente di sorridere : eccola, una delle più grosse fatiche della mia vita. Restare in piedi. Non ho fatto altro che piangermi addosso nei momenti meno opportuni: ed ora, che ne avrei ben d’onde, cerco invece di fingere che ciò che è accaduto non mi tocchi, non sia mai successo, non abbia avuto alcun significato. Esattamente come quando mio padre se ne andò, portato via dalla sua grigia malattia.
Recitare questa commedia è una delle cose più dure che io abbia mai domandato a me stessa. Ridere con i miei amici fingendo che il mio cuore non sia stato ridotto al rango di una poltiglia : che le mie braccia non portino ancora i segni della mia paranoia ed il mio corpo ingovernabile quelli del disordine alimentare. Penso alla me stessa di quattro mesi fa, che piangeva tra le quattro mura di un reparto fatto solo di silenzi dove gli infermieri non offrivano mai la carezza rassicurante di una parola buona e a quella che, ora, se ne sta al tavolino di un bar sulla piazza principale, a far ridere tutti con la sua consueta e caustica ironia.
Sono sempre io, la stessa persona? Non lo so. E’ da parecchio, ormai, che non so più niente.
Credevo egoisticamente, una volta, di avere diritto alla felicità. Era scaturita da una decisione del tutto arbitraria ed improvvisa, questa mia conclusione. Un’equazione mentale di dubbia veridicità.
Mio padre non c’era più.
Bene.
Un giorno, in un non meglio precisato futuro, la vita mi avrebbe ricompensata di tanta tristezza, di tanto peso sopra al cuore. Ed io sarei stata felice! “Avrai sorrisi sul tuo viso come ad Agosto grilli e stelle!”.Felice! Felice per davvero, felice da imbarazzare e da suscitare invidia!
Ho ventu’anni; ed ho soltanto tanta paura. Penso a quante (e forse troppe) cose, a questo mondo, non funzionino, impedendoci così di convincerci stupidamente di avere una qualche speranza d’attribuire, un giorno, un senso a questo caos che non ha nome.
Mi guardo indietro e un po’ sospiro, anche se non dovrei. Non è certo stata la prima persona ad andarsene dalla mia vita: eppure, non so bene perché, mi sento come uno spaventapasseri franato.
Avrei dovuto aspettarmelo? Non ne ho idea. La mia psicologa mi aveva detto, quando ancora mi sbattevo a frequentarla “pensa ad un momento in cui sei stata felice; e se senti che, all’improvviso, non ce la fai, richiamalo alla mente. Devi rifugiarti in quel ricordo, ed esso ti cullerà”. Avevo chiuso gli occhi. Per me era stato inevitabile visualizzare il parco dietro all’Università, il pentagono del cielo appesa sopra la mia testa; la persona ch'era accanto a me e che sembrava, per una volta, infischiarsene se dicevo “cazzomerda” al posto di “merci beaucoup” e se, forse, non ero esattamente una ragazza come le altre.
A poco a poco stavo meglio: e ci credevo anche io, forse, al sogno di una giustizia divina, anche se avevo cento battiti al minuto ed il mio inseparabile amico, da qualche tempo a quella parte, si chiamava attacco di panico.
Potessimo conoscerlo in anticipo, il futuro delle nostre scelte!
Se avessi saputo che, mio padre, dalla porta di ingresso non sarebbe mai più entrato, ci potete scommettere. L’avrei abbracciato così forte da levargli il fiato, anziché restare immobile davanti alla finestra.
Potessimo conoscerlo in anticipo, il futuro delle nostre scelte!
Avessi saputo che, in fin dei conti anche tu, non saresti stato che uguale a mille altri! Sì. Quel giorno, a scuola, sventolando i miei capelli rossi con una punta di sprezzante alterigia, non ti avrei concesso neppure di incrociare il mio sguardo.
Ti avrei scansato guardandomi i piedi, come sempre trincerata dietro al muro impenetrabile del mio silenzio.
Gran bella cosa, il silenzio, no? In fin dei conti lui, di me, non ha paura. Non m’abbandona mai. Anche se sono incazzata con il mondo.
Sono come una patata bollente, d’altra parte. L’ho sempre saputo.
E’ divertente rigirarmi tra le mani. Ma quando inizio a scottare, è decisamente giunta l'ora di ora di buttarmi via.